lunedì 31 marzo 2014

Renzi è troppo alto per essere un dittatore!

Rodota Grillo e Zagrebelsky hanno paura che Renzi possa prendere una svolta autoritaria, come provò a fare Berlusconi varie volte, sempre attraverso vie diplomatiche e legali. 
Ma Renzi non potrà mai diventare un dittatore! 
Vi spiego perché: sì, certo, le facce buffe le fa, e ha anche una buona dose di egocentrismo e superbia in sé, però molte cose in lui non vanno.
Anzitutto è troppo alto. Da quello che ho letto è alto all'incirca 1.85, mentre Mussolini e Berlusconi non arrivavano al metro e settanta. Hitler arrivava al metro e settantré mentre ritengo inutile ricordare l'altezza di Napoleone.
Chi invece è più basso del metro e settanta (una sorta di "soglia di sbarramento" per avere i requisiti fisici per essere dittatore) è proprio lui, l'immenso Beppe Grillo, che ha già svelato le sue intenzioni manifestando la volontà di una "dittatura sobria". 
Ok, con questo articolo ho fatto un assist clamoroso a tutti coloro che avvicinano Grillo ad Hitler. Contattatemi in privato che vi scrivo l'IBAN. 
Insomma, non parlate a vanvera, Renzi non può essere dittatore, facciamocene una ragione!

sabato 29 marzo 2014

Slogan perdenti

Quando Renzi ha parlato di "Yes we can" qualche giorno fa con Obama, dicendo che deve valere anche per noi oggi, ho tremato di paura. Un deja-vu, un incubo che sta riprendendo vita. Me lo ricordo quello slogan io, ed ahimé stavo anche al Circo Massimo quando Veltroni fece uno (se non l'ultimo) dei comizi prima del voto alle politiche del 2008. Dall' "I care" allo "Yes we can" obamiano, un insuccesso clamoroso. 
La ferma volontà della sinistra italiana di copiare il successo degli altri. Qui non funziona, ma nessuno sembra capirlo, anche lo stesso Renzi. 
Diciamo però che, volendo fare del sano "amarcord", il più grande disastro mediatico ci fu con Occhetto e la "gioiosa macchina da guerra". Fu il più clamoroso perché la sinistra democratica dopo secoli di sconfitte elettorali (più o meno cocenti) era convinta di vincere. Ma proprio ieri ricorreva l'anniversario della prima storica vittoria elettorale di Silvio Berlusconi.

Insomma, Renzi, smettila con gli sloga vincenti e vinci davvero queste benedette elezioni, quando ci saranno. 
Ma sono sicuro che Renzi dimostrerà di non essere "slogan e distintivi".


venerdì 28 marzo 2014

Renzi convince anche Obama

Dopo aver incontrato il Papa e Giorgio Napolitano, il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha incontrato anche il Presidente del Consiglio Italiano Matteo Renzi. Il discepolo ha avuto finalmente l’occasione di incontrare il maestro, e per discepolo non intendo solo Renzi, ma più in generale l’intera ala della sinistra democratica italiana, dal 2007 raccolta sotto il nome di “Partito Democratico”. Già dalla vittoria alle elezioni presidenziali americane del 2008 il personaggio Obama si era guadagnato la stima dei militanti democratici, con tanto di Obama Night al tempio di Adriano (piazza di Pietra), con la “notte della grande scelta” alla quale partecipò tutta la nomenclatura ex Pci, Pds, Margherita, ovvero il segretario del Pd, Walter Veltroni, il vicesegretario Dario Franceschini, i ministri ombra e i dirigenti del partito. Anche nella giornata di oggi è stato fatto un riferimento al passato, da parte di Matteo Renzi, che ha affermato: “Lo ‘Yes we can’ vale anche per noi oggi”. Battuta infelice per il segretario dei democratici, visto che lo slogan fu già riusato dallo stesso Veltroni per le elezioni del 2008, con il risultato che tutti noi sappiamo. “Tutti i giornalisti italiani sanno che Obama non solo è il presidente Usa: per me e la mia squadra è fonte di ispirazione” ha continuato Renzi, aggiungendo anche che “‘L’Europa ha bisogna di crescita e occupazione”. E questo è il punto forte della politica di Renzi, che sta cercando in tutti i modi di non far vincere alle prossime elezioni europee i partiti populisti anche forzando la mano in Europa. Oggi è arrivato dunque anche l’endorsment di Obama, che oltre ad essere contento dell’energia che ha l’ex sindaco di Firenze, sta anche appoggiando la sua lotta contro l’austerity. Infatti il Presidente degli States, da bravo americano figlio del New Deal, ha dichiarato “Il dibattito fra crescita e austerity è sterile: le finanze pubbliche devono essere in ordine ma più si cresce e più i conti sono in ordine”. Renzi durante la giornata si lascia anche a frasi sentimentalistiche e nostalgiche: “I nostri nonni hanno combattuto per l’Europa, gli Usa hanno combattuto per salvare la democrazia in Europa. Mia mamma piangeva davanti alle immagini del crollo del muro di Berlino. Serve un percorso di unificazione dell’Europa in cui l’Europa sia terra di cooperazione ma anche di crescita e occupazione”. Obama dà dunque il suo ok all’operato di Renzi, dando anche il suo appoggio sulla questione dei marò, questione molto importante, che sembra non prendere una decisiva strada verso la risoluzione. Questa visita è stata anche l’occasione per Obama di riaffermare la disponibilità degli USA a vendere il gas all’Europa, sostituendosi alla Russia eterno nemico, ora più che mai anche nel commercio. Il presidente ha avuto da ridire sulla spending review non solo Italiana, ma più in generale anche europea: “Riconosco che in Europa ci sono opportunità per maggiore efficienza e rendimento nel settore militare, ma c’è un certo impegno irriducibile che i Paesi devono avere se vogliono essere seri nell’alleanza Nato e nella Difesa”. Dunque sembrerebbe una bocciatura anche ai tagli voluti dalla Difesa, soprattutto agli F35. Una giornata intensa chiusa nel modo più americano possibile, il giro nel Colosseo, una visita che ha paralizzato la città con la guida del Ministro della Cultura Dario Franceschini. Il Colosseo lo ha incantato, tanto da fargli esclamare “Eccezionale, incredibile… è più grande di alcuni degli attuali stadi di baseball!”. E per un americano dire una frase del genere è qualcosa che va oltre il semplice complimento. Nonostante tutto la visita di Obama a Roma è stata una visita fondamentale per il cammino che vuole intraprendere l’Italia come protagonista europea e non solo, come vuole il premier Renzi. Premier Renzi che dopo aver incantato molti italiani, dopo aver incantato i partner europei, sembra aver incantato anche Obama. Che sia un predestinato? 

Federico Sconocchia Pisoni – @fedescony

giovedì 27 marzo 2014

Obama dribbla Renzi e punta al Papa.

Il giorno tanto atteso è finalmente arrivato: Obama è in Italia. Noi vi terremo informati sull’evento per tutta la sua durata, un evento ha messo in ginocchio quasi tutta Roma, visto che il presidente deli Stati Uniti d’America toccherà vari luoghi della città. Pernotterà a Villa Taverna, nel quartiere Parioli, per tutta la durata della visita; andrà al Quirinale, per parlare col presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ed infine parlerà con il premier Matteo Renzi. Ma l’incontro più atteso (soprattutto dalla stampa americana) è quello con Papa Bergoglio. Infatti lo scopo dell’intera visita sembra essere proprio quello di discutere oggi alle 10.30 con il Vescovo di Roma, piuttosto che parlare con le istituzioni politiche Italiane. Ma perché? 

Anzitutto occorre dire che molti personaggi che circondando il Presidente Obama sono cattolici (ed anche lo stesso presidente in gioventù ha collaborato con istituzioni cattoliche): è cattolico John Kerry, il Segretario di Stato, è cattolico Joe Biden, vicepresidente degli States, è cattolico il capo dello staff Denis McDonough, ma è anche cattolica Kathleen Sebelius, segretario della Salute e dei Servizi Umani (corrispondente al nostro Ministero della Salute), che è stata, ed è, al centro del dibattito per la riforma sanitaria (il cosiddetto “Obamacare”), che fra le tante novità proponeva anche di comprendere i costi dei contraccettivi nelle polizze sanitarie dei dipendenti (novità che sembra non piacere affatto all’élite cattolica americana). 


Come è ovvio non si toccheranno temi di carattere etico come il diritto all’aborto, dato che le posizioni dei due sono agli antipodi (come è ovvio che sia), ma la discussione verterà prevalentemente su Siria ed Ucraina, due temi principi per entrambi. Obama tiene particolarmente a questa visita perché all’elezione di Bergoglio hanno contribuito i Vescovi nord-americani, che hanno spinto parecchio per eleggere un Papa “vicino”, nato in Argentina, in Sud-America.Come se con quell’elezione si volesse sfidare (ma ovviamente non si può definire “sfida”) la supremazia europea ed italiana storica nelle elezioni papali. Ciò che più colpisce Obama è come il Papa affronti il tema degli ultimi, cosa che evidentemente non sembrava fare Benedetto XVI, come Bergoglio stia cercando di eliminare tutti quei privilegi acquisiti dalla Chiesa Cattolica durante la sua storia millenaria, compito arduo ma non impossibile. Obama, si potrebbe paradossalmente affermare, vede in Francesco una guida da seguire, vede nel Papa e nelle sue parole un modo per poter cambiare il mondo.  E non è un mistero che spesso Francesco I venga citato dal Presidente degli Stati Uniti d’America. Non me ne voglia Renzi, ma forse il premier è più la scusa che non lo scopo di questo viaggio.


 Federico Sconocchia Pisoni – @fedescony

martedì 25 marzo 2014

Credere in Renzi per fermare Le Pen

Ieri il premier Matteo Renzi è stato al congresso sul nucleare all’Aja. Ma non si è discusso solo del problema del nucleare. Anzitutto il premier ha incassato l’endorsment del premier giapponese Abe, il quale a suo tempo era stato criticato in patria per un progetto di riforme radicale di portata simile a quello che ha in mente Renzi. Ma indubbiamente al centro del dibattito politico europeo non può che far scalpore e paura l’avanzata minacciosa del partito di estrema destra di Marine Le Pen, che ha registrato il 4,6% con il suo Front National. E’ un dato particolarmente significativo, visto che il suo partito era candidato in soli 600 dei 36000 comuni chiamati al voto (in percentuale si potrebbe dire che abbia preso il 27,6 %). Anche di questo ha parlato Renzi alla stampa, dicendo che se l’Europa non permetterà che i paesi (come l’Italia) crescano economicamente, l’esito non potrà che essere simile a quello avuto in Francia. Non ci si può fermare a discutere sullo “zero virgola qualcosa”: bisogna captare il sentimento delle persone e far capire loro che l’uscita dall’euro è la soluzione più dannosa alla crisi. Per poter far cambiare idea a costoro ci sono ancora due mesi di tempo, dopodiché forse sarà troppo tardi. Il premier ha aggiunto inoltre che c’è grande fiducia e curiosità verso l’Italia e le riforme che ha in cantiere, esortando inoltre gli italiani a smetterla con il “provincialismo”.  Premier che da oggi ufficialmente non è più sindaco della sua amata Firenze, città che ha votato ieri alle primarie per il candidato PD alle prossime amministrative. Come prevedibile ha vinto il braccio destro di Renzi Dario Nardella, con l’84% delle preferenze (complice però il breve periodo concesso per la campagna elettorale, fattore che ha indubbiamente favorito Nardella, che di suo aveva già il beneplacito di Renzi), battendo agevolmente Alessandro Lo Presti e Iacopo Ghelli. Nel frattempo ha parlato anche Squinzi. Il leader di Confindustria ha cercato di placare gli animi dopo le polemiche dei giorni scorsi (Renzi aveva snobbato Squinzi e la Camusso che avevano criticato il suo operato liquidandoli come “una strana coppia”) dicendo che “la contrapposizione che sta montando in questo momento è essenzialmente mediatica e non corrisponde alla nostra visione: posso garantire fin d’ora che saremo i sostenitori più leali del governo in attesa delle riforme e di vederle applicate. Se il governo Renzi sarà in grado di fare le riforme, troverà in noi i sostenitori più leali e decisi perché questo paese ha bisogno di riforme per ritrovare la crescita” Un copione già sentito qualche tempo fa, quando a recitarlo era però lo stesso premier, che in quel periodo era solito creare hashtag del tipo “#enricostaisereno”. Be’, in questo caso non mi stupirei se su un improbabile account Twitter di Squinzi trovassi scritto qualcosa come “#renzistaisereno”.

lunedì 24 marzo 2014

L'agenda Renzi

Vi ricordate il discorso di Renzi appena nominato Presidente del Consiglio? Davanti al circo mediatico aveva dettato la sua agenda: a febbraio la legge elettorale, a marzo la riforma del lavoro, ad aprile quella della Pubblica Amministrazione, a maggio quella del fisco, per poi aggiungere qualche giorno dopo che a giugno avrebbe messo mano alla riforma della giustizia. Be’, sebbene per la riforma della legge elettorale abbia sforato di qualche giorno, non si può dire che non stia mantenendo le promesse. Sta finendo marzo, e la riforma del lavoro (il famoso Jobs Act), per quanto possa essere stata criticata dai sindacati, è stata messa su carta grazie al decreto legge del ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Nel frattempo continua la battaglia per riformare la costituzione. Per venerdì, infatti, il premier annuncia che si inizieranno i lavori per l’abolizione del senato, una riforma costituzionale che per motivi meramente tecnici potrà essere completata verso fine 2015. Aspettando la prossima riforma della pubblica amministrazione, anticipata dalla polemica sugli stipendi dei dirigenti che ha fatto stizzire Moretti di Ferrovie dello Stato, possiamo porre l’accento su una caratteristica del premier Matteo Renzi. Secondo uno stile molto british, molto thatcheriano, il premier bada alle sue riforme senza dare troppo spago alle polemiche degli avversari. Questo si sta vedendo con lo Jobs Act, che secondo i sindacati italiani non fa che portare più precarietà nel lavoro. Finalmente è stato dunque smentito il luogo comune per cui “in questo paese il problema vero sono i sindacati”. Non ci è voluto molto al premier Renzi per capire che se vuole fare andare avanti il proprio lavoro non può stare a sentire i problemi di tutti. Tanto, di polemiche ce ne sono e ce ne saranno sempre tante. Ma, continuando con l’analogia, tutto ciò non porterà agli stessi problemi che ha avuto in tempi non sospetti l’Inghilterra negli anni settanta ed ottanta? Restando il fatto che in questo momento non ci si può che comportare in questo modo, probabilmente no, non porterebbe agli stessi esiti, perché la situazione economica è ben diversa da quella di trenta-quaranta anni fa. L’altro ieri al Forum Confcommercio di Cernobbio ha parlato anche il ministro dell’Economia Piercarlo Padoan, che ha detto: “L’azione di governo è un insieme compatto di misure che si devono sostenere a vicenda, il cui senso risiede non nel singolo provvedimento, ma nell’azione complessiva di riforma, e che si basa su una prospettiva pluriennale”. Una prospettiva pluriennale. Anche questo è stato “promesso” dal premier ai tempi, e sembra proprio che nessuno in questo momento possa fermarlo. A meno di clamorosi imprevisti, Renzi si sta avvicinando al meglio alle europee del 25 maggio, tanto è vero che Grillo per cercare di fermare l’avanzata dell’ex sindaco si è addirittura fatto intervistare in TV da Mentana, quando fino a qualche mese fa espelleva chiunque lo facesse.

 Federico Sconocchia Pisoni – @fedescony

venerdì 21 marzo 2014

Il treno Renzi

Il treno delle riforme del governo Renzi va spedito, e non si ferma più (neanche per pisciare citando De Gregori). Ieri è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto Legge del Ministro del Lavoro Giuliano Poletti, riguardo la riforma del lavoro. Un passo avanti, che smentisce tutti coloro che vedono in Renzi il solito politico vecchia maniera, che promette tanto ma non conclude niente. Sembrerebbe dunque ormai avviato il progetto di cambiamento voluto dall’ex sindaco di Firenze, e sembra davvero non avere ostacoli. Di qualche giorno fa è infatti la notizia dell’interdizione dai pubblici uffici per due anni a Silvio Berlusconi confermata dalla cassazione. Questo vuol dire una cosa sola, ma molto importante: probabilmente per i prossimi due anni non si andrà a votare. Gli ultimi sondaggi sono significativi: senza il nome di Berlusconi sul logo, Forza Italia rischia si scendere addirittura sotto il 20%. Per questo motivo i forzisti si sono subito messi all’opera per convincere qualche figlio dell’ex cavaliere a candidarsi elle europee. La conseguenza politicamente più importante in tutto ciò è che Renzi ha la strada completamente spianata, e gli ostacoli dell’opposizione via via saranno sempre di meno. Non conviene a nessuno andare alle elezioni adesso, se non al Movimento Cinque Stelle, che però comincia ad avere sempre meno peso nelle aule del parlamento (non che prima ne avesse avuto molto di più). Nei sondaggi invece i pentastellati crescono di qualche punto percentuale, ma il PD (da tempo confluito nel PSE di Martin Schulz) rimane sempre il primo partito in vista delle elezioni europee. Come già detto Forza Italia è in netto calo, ma nelle intenzioni di voto per le politiche, sondate da Ixè per Agorà, il centrodestra ancora se la batte con il centrosinistra. Già in precedenza l’opposizione di Forza Italia era stata un’opposizione piuttosto blanda, a maggior ragione ora che andare alle elezioni è tassativamente proibito, i parlamentari Forza Italia porranno sempre minore resistenza. Renzi in questo modo può velocemente procedere in primis con l’abolizione del Senato, e poi con le altre riforme. Nel caos generale, lo scenario che improbabilmente potrebbe delinearsi è quello di un’uscita di Alfano dalla maggioranza, che potrebbe avere paradossalmente una voglia improvvisa di elezioni per racimolare i voti persi da Forza Italia. Se non ora quando? Nei social invece cresce la popolarità di Matteo Renzi, che riceve sempre più “mi piace” su Facebook e sempre più follower su Twitter. Non quanti ne ha Grillo, che però da più tempo vegeta su internet, e di internet vive. Grillo che però sembra avere sempre meno seguito in rete, ed è molto grave per qualcuno che, come già detto, deve la sua popolarità quasi tutta alla rete ultimamente.

Chi di internet ferisce, di internet perisce, verrebbe da dire.

Federico Sconocchia Pisoni - @fedescony

giovedì 20 marzo 2014

La riforma del Titolo V

Nella giornata di ieri, Matteo Renzi ha parlato con Vasco Errani (presidente della conferenza delle Regioni) per discutere assieme della riforma del Titolo V della costituzione, riforma che andrà di pari passo con quella del Senato. Il premier ha chiesto ad Errani di collaborare, stimolando la conferenza a dare consigli su come migliorare il testo della riforma. Ma di che cosa si tratta nello specifico? L’idea di riformulare il Titolo V non è un’idea nuova, di fatti una riforma in tal senso fu avviata con la terza bicamerale del 1997, e portata a termine poi nel 2001 a maggioranza dalla sinistra (per inciso questo avvenimento è spesso citato da Renzi per giustificare l’accordo con Berlusconi sulla legge elettorale, ribadendo il fatto che le “regole del gioco” vanno fatte con tutti, non solo con la propria maggioranza). Grande cerimoniere era Massimo d’Alema, nemico-amico del rottamatore Renzi. Ora più amico che nemico. In quella riforma del Titolo V (recante articoli della Costituzione che specificano le competenze assegnate allo Stato o alle regioni) fu fatto un processo di decentramento amministrativo, cercando di dare competenze statali alle regioni (puntualmente descritte nell’articolo 117). Ora il progetto di Renzi si spinge ancora più oltre, avendo anche la ferma volontà di cancellare il bicameralismo perfetto per introdurre al posto del Senato una camera delle autonomie. Ma andiamo con ordine: in materia di competenze statali, l’obiettivo del governo è quello di creare maggiore flessibilità fra i poteri statali e regionali; ad esempio qualora ci fossero esigenze nazionali, si potrebbe facilmente spostare la competenza regionale in statale, e viceversa, senza avere troppe inutili complicazioni. E’ una parola che va di moda con Renzi, “flessibilità”. L’abbiamo già sentita nominare nello Jobs Act, con un’accezione negativa da parte dei sindacati. E’ uno dei due termini più abusati (e forse a ragione) dall’ex sindaco. L’altro termine è “semplicità”. L’altra importante riforma collegata a quella del Titolo V è, come già detto, l’abolizione del Senato. Per meglio dire, non si tratta di una vera e propria abolizione, bensì una trasformazione. Il Senato sarà composto da circa 120 senatori, ovvero: i presidenti delle regioni, due membri eletti dai consigli regionali, tre sindaci per ogni regione e 21 senatori eletti dal Presidente della Repubblica, con lo stesso criterio con cui venivano scelti i senatori a vita. Il Senato (ovvero l’Assemblea delle Autonomie) non potrà più dare la fiducia ai governi, né potrà avere un ruolo di protagonista nel varo delle leggi, potrà bensì esprimere pareri sulle proposte di legge entro dieci giorni, e da quanto si può leggere dalla bozza diffusa dal ministro Maria Elena Boschi “L’Assemblea delle autonomie rappresenta le istituzioni territoriali. Concorre, secondo modalità stabilite dalla Costituzione, alla funzione legislativa ed esercita la funzione di raccordo tra lo Stato e le Regioni, le Città metropolitane e i Comuni. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi dell’Unione europea”. Il bicameralismo perfetto rimarrà soltanto quando verranno trattate le riforme costituzionali, e cosa molto importante, verranno eliminate definitivamente le province.

Tutto facile, potrebbe sembrare ad una prima lettura. Ma siamo sicuri che i senatori voteranno la loro abolizione?

Federico Sconocchia Pisoni - @fedescony

mercoledì 19 marzo 2014

Renzi sfida l'Europa

Ieri Renzi ha parlato alla Camera dei Deputati in vista del vertice UE di oggi e domani. Come già spiegato in conferenza stampa, in presenza della Merkel, il premier ha ribadito che l’Europa non deve essere l’alibi dei nostri problemi. Tuttavia non ha parlato solo di come l’Europa non debba comportarsi con noi. Renzi ha parlato soprattutto del suo progetto europeo, che già aveva in parte espresso nella presentazione al tempio di Adriano del nuovo libro di Massimo D’Alema “Non solo euro”.Un punto importante per l’ex sindaco di Firenze è quello di rivalutare il Mar Mediterraneo, che non deve essere visto come un confine di frontiera. L’Europa, secondo il premier, se ne deve riappropriare, è un mare che deve tornare ad essere il cuore dell’unione. E’ dell’altro ieri infatti la notizia dello sbarco di altri immigrati in Sicilia, salvati dalle forze italiane. Ed è forse il punto più dolente della politica estera europea, perché è un problema che tocca i confini dell’Europa. Confini che vengono ritenuti europei soltanto quando fa comodo. E’ paradossale trovarsi in un’Europa che cerca di esportare la democrazia, ma che non riesce ad accogliere chi la cerca. Renzi ha spiegato così il perché del suo primo viaggio internazionale in Tunisia, fatto apposta per chiarire a tutti quanto egli tenga a ricostruire un’Europa che abbia al centro del proprio progetto il mare Mediterraneo. Il Mare Nostrum, come nell’antica Roma. Ma il punto forse più importante su cui si è soffermato Renzi è quello di migliorare l’Italia per migliorare l’Europa. Infatti secondo il premier è necessario (per non dire obbligatorio), prima di poter dettare la linea all’Europa, avviare quel progetto di riforme presentato dal governo atto a migliorare il mercato del lavoro e l’economia nazionale. Solo una volta fatto ciò, ed avendo così dimostrato che l’Italia è un paese che può davvero comandare in Europa, si può andare a Bruxelles con il coltello dalla parte del manico. E secondo l’ex sindaco di Firenze l’Italia potrebbe essere per un lungo periodo di tempo leader dell’Europa, scavalcando le “concorrenze” di Germania e Francia. Sono già tante le accuse che ha rivolto Renzi all’UE, una su tutte quel tetto massimo del 3% riguardante il deficit/PIL che egli ha definito “anacronistico”. Ma, come già detto, non siamo ancora abbastanza forti per poter dettare legge a paesi come la Germania, la Francia, od altri. E’ difficile poter fare la voce grossa dopo aver visto passare in meno di tre anni quattro governi (Berlusconi, Monti, Letta e Renzi). Pur non potendo ancora dettare legge, Renzi ha però già in mente una cosa fondamentale, che abbiamo capito durante questi ultimi sei anni: la finanza deve essere sottoposta alla politica. E’ inutile fare tanti discorsi di cambiamento se non riusciamo a svincolare la finanza dalla politica. E’ un modo di fare che va avanti da quasi quarant’anni, ed ha portato soltanto maggiori disuguaglianze e più povertà.
E’ questa forse la sfida più grossa per Matteo Renzi. Migliorare l’Italia facendo capire che possiamo essere i protagonisti del cambiamento. E il cambiamento non è uscire dall’euro, come sostiene qualcuno.

Ma è proprio quel “qualcuno” l’ostacolo più grande fra Renzi e l’Europa.

Federico Sconocchia Pisoni - @fedescony

martedì 18 marzo 2014

Renzi in Europa

L’incontro tanto atteso è avvenuto; Renzi nella giornata di ieri ha incontrato la cancelliera tedesca Angela Merkel, e i due sono diventati subito amici (almeno così è sembrato dall’atteggiamento del premier italiano, che si è rivolto al primo ministro tedesco addirittura chiamandolo per nome).La Merkel, dopo aver esaminato il piano di riforme stilato da Matteo Renzi (ma soprattutto dopo aver ricevuto l’ok da parte del proprio ministro delle finanze Schäuble) si è detta favorevole, a patto però che si rispetti il fiscal compact, tanto a cuore alla Germania. L’Italia, ricorda, presiederà alla commissione per la disoccupazione giovanile, e dunque avrà l’occasione per dimostrare ciò che intende fare nel settore. Durante la conferenza stampa, Renzi sembra essere molto a suo agio, forse troppo, tanto da ricordare per qualche attimo Silvio Berlusconi. Inizia il suo discorso con un “grazie Angela” ma poi si fa subito serio. La prima parte del discorso verte sul ruolo che ha l’Europa nei confronti dell’Italia, egli infatti chiarisce subito che le riforme che ha in mente il governo non vengono fatte per compiacere l’Europa, ma perché “ce lo chiedono i nostri figli”. E’ un’affermazione molto importante, che ribadisce per l’ennesima volta un concetto tanto caro al neo premier, ovvero quello di affermare l’importanza dell’Italia nello scacchiere geo-politico europeo. D’altronde già nell’intervista al TG5 aveva affermato che “l’Italia non è un alunno somaro da mettere dietro la lavagna. Riconquistiamo l’orgoglio di essere italiani”. Una frase che forse potrebbe piacere poco alla sinistra, ma che in questi tempi è assolutamente condivisibile ed utile per dare fiducia al paese. Come in quasi tutte le conferenze stampa (era già successo al congresso del PSE, alla conferenza stampa sullo Jobs Act e ieri con la Merkel), Renzi ha ricordato il suo trascorso da sindaco di Firenze, auspicando un “nuovo rinascimento” per l’Europa, termine assai caro agli intellettuali europei. E’ un fenomeno tutto italiano quello del rinascimento, e non a caso è stato citato dal premier italiano. Certo, c’è una buona percentuale di amor proprio  nell’aver espresso quella frase, ma è un modo per ribadire l’importanza non solo economica dell’Italia nell’Unione, ma anche storica. Inutile ricordare di essere stati fra i padri fondatori dell’Unione Europea. Renzi continua però a rassicurare l’Europa: “L’Italia non chiede di sforare i limiti di Maastricht, non vuole cambiare le regole dando il messaggio che le regole sono cattive e che vengono da qualcuno fuori da noi: le regole ce le siamo date insieme, e sono importanti”. Ma allo stesso tempo, continua, per far ripartire il paese bisogna crescere, bisogna fare cioè quello che i governi precedenti (Monti e Letta) non hanno saputo fare: sì, è opportuno ridurre la spesa pubblica, ma è necessario, oserei dire doveroso, far ripartire l’economia interna, creare più domanda. E su questo neanche la Merkel ha avuto niente da obiettare, sono le basi dell’economia. La Germania, e l’Europa, sono favorevoli a delle riforme che vadano in questo senso, l’importante però è che non si superi quel limite deficit/PIL fissato al 3%, limite invalicabile, come le colonne d’ercole per l’antica grecia. Ma è normale avere questo punto di vista, soprattutto nei confronti di un paese che è sempre stato incapace di fare delle serie riforme, e che negli ultimi tempi ha spesso sfiorato la bancarotta. La Merkel aggiunge che i risultati delle riforme si vedono dopo due-tre anni, di fatto smorzando l’entusiasmo che si era creato intorno al segretario del PD. Renzi, dal canto suo, aggiunge che il suo “Jobs Act” è in realtà apprezzato in Italia, ma non è visto di buon occhio dai sindacati, ai quali dice però che l’unico modo per far ripartire il mercato del lavoro è quello di semplificare il mercato stesso. Detto ciò, non è vero che si viene a creare più precarietà.
Come primo “esame” europeo possiamo affermare che Renzi se la sia cavata abbastanza bene, ricevendo un sì, forse più per disperazione che ottimista, da parte della Merkel, che a quanto è sembrato, si è detta favorevole all’aumento percentuale del deficit/PIL: l’importante è che poi ciò porti qualche risultato buono. La questione più importante nell’incontro di ieri sembra però essere legato alle prossime elezioni europee. Entrambi i premier vivono con terrore la possibile vittoria delle forze anti-europeiste, e stanno correndo subito ai ripari, per evitare il peggio. Di fatti il problema populismo, che rischia di compromettere decenni di lavoro diplomatico, non esiste solo in Italia, ma anche in Germania, dove potrebbe sembrare paradossale il pericolo dell’anti-europeismo.
Il problema, forse, è che sia troppo tardi ora. Oppure no?

Federico Sconocchia Pisoni - @fedescony

lunedì 17 marzo 2014

L'ipocrisia occidentale. La Crimea è russa.

“Il referendum in Crimea è stata una violazione chiara della costituzione Ucraina e della legge internazionale”. Così ha esordito oggi Obama nel suo discorso dopo il referendum di ieri (più che referendum, un plebiscito) che ha per ora sancito il ritorno dopo sessant’anni della Crimea in Russia. Il 97% dei votanti (e non il 95% come tendono a dire in queste ore i cronisti, sebbene sia comunque un dato molto significativo) si è espresso favorevole al ritorno in Russia. Ho parlato di ritorno perché, come è noto, la Crimea è stata una regione Russa fino al 1954, quando fu regalata all’Ucraina come segno di riconoscimento dell’alleanza fra cosacchi ucraini e russi.
Una domanda sorge spontanea dopo aver sentito Obama: e il governo appena nato di Kiev, è per caso legale e legittimo? Intendiamoci, il governo che c’era in Ucraina fino a qualche settimana fa era di certo un governo pseudo-dittatoriale, e il leader Yanukovic non era sicuramente un paladino della democrazia.
Ma se c’è una cosa che l’uomo dovrebbe aver imparato dal romanticismo ottocentesco, e poi paradossalmente dall’americanismo dominante durante tutto il novecento, è che bisogna sempre ascoltare e dare retta al popolo. Perché il popolo ha ragione. In questo caso si chiama “principio di autodeterminazione dei popoli” ed è proprio su questo punto che si è soffermato Putin, non a torto. Il popolo ha deciso di stare dalla parte dei russi, e allora qual è il problema? Un problema c’è, a ben vedere: in questo modo si rischia di distruggere quell’equilibrio precario su cui si era costruito dopo la dissoluzione dell’URSS, un equilibrio che essendo molto fragile, smaschera, ora più che mai, gli errori susseguitisi dal 1992 in poi da parte di Europa ed America, intente soltanto a perseguire i propri interessi, cercando di mettere sotto il tappeto i problemi enormi, che prima o poi, puntualmente, sarebbe riusciti fuori. D’altronde la crisi Ucraina è stata causata non dalla Russia, ma dall’Europa, che ha fatto di tutto per non far entrare l’Ucraina nell’unione, mandandola nel caos più totale. Il vero problema che si pone ora, è tutelare la minoranza Ucraina che ora vive in Crimea, non più sotto la grivnia ma sotto il rublo russo. Qui si possono creare delle problematiche notevoli, poiché in queste situazioni le minoranze molto poco spesso vengono tutelate.

Vorrei fare un appello all’occidente: oltre il gas ci sono le persone.


Federico Sconocchia Pisoni - @fedescony

sabato 15 marzo 2014

Renzi (non) è di sinistra.

In questi giorni i media ci hanno riempito la testa di numeri. Ciò è avvenuto in seguito alla conferenza stampa tenuta mercoledì 12 marzo da Renzi; ci hanno bombardato di percentuali, riguardanti il lavoro, l’economia, la finanza. Ma in particolare, di cosa ci hanno parlato? Fondamentalmente ci hanno parlato delle rendite finanziare, dei nuovi tipi di contratti a termine, e del deficit.

Tassazione delle rendite finanziarie


Il governo Renzi, per trovare le coperture necessarie per poter mettere nelle tasche degli italiani 100 euro in più al mese, come promesso, ha deciso di alzare la percentuale di tassazione delle rendite finanziarie dal 20 al 26%. Ma tecnicamente in cosa consiste questa mossa?
Ai tempi del ministro Visco (si parla di poco meno di dieci anni fa) si era cercato di dividere le rendite finanziarie in due categorie, i redditi di capitale (ovvero i dividendi derivati dalle azioni) e i guadagni di capitale (ovvero il guadagno che si ha nella compravendita di titoli azionari, il cosiddetto capital gain).
Ma in cosa consistono i redditi di capitale? Nel Decreto del Presidente della Repubblica 917/86 vengono sostanzialmente così definiti: Il reddito di capitale è costituito dall'ammontare degli interessi, utili o altri proventi percepiti nel periodo di imposta, senza alcuna deduzione. Entrando nello specifico, consistono in interessi e altri proventi derivanti da mutui, depositi e conti correnti, gli interessi e gli altri proventi delle obbligazioni e titoli similari, degli altri titoli diversi dalle azioni e titoli similari, nonché' dei certificati di massa ecc.
Finora la tassazione era ferma al 20%, ed il governo Renzi vorrebbe alzarla al 26%, come già detto, escludendo però i BOT. Dunque per i cassettisti: state tranquilli, nessuno vi tocca niente.
Ovviamente chi è più “preoccupato” sono coloro che detengono i tipi di azioni sopra descritti, ma è per il bene del paese. Infatti tutto ciò serve per far ripartire l’economia del paese, in modo tale si alzerà la curva di domanda, che, notoriamente, viene spostata dalle famiglie a reddito medio/basso, non certo dai ricchi. Siccome parlare di patrimoniale, con Alfano al governo, è come bestemmiare in una chiesa, il metodo alternativo è solo questo.

Contratti a tempo determinato


Il ministro del Lavoro Poletti ha già chiarito la situazione. Per prima cosa, c’è da dire che è stata inserita la “acausalità”, ovvero non ci sarà più l’obbligo da parte dell’imprenditore di spiegare il perché di un licenziamento. Questo però dopo che è stato deciso che il contratto aumentasse da 12 a 36 mesi, ed è stato anche permesso di rinnovare per otto volte, a patto che non si cambi la natura del rapporto di lavoro. Questo in aperta polemica e in netto contrasto con la precedente legge approvata dal governo Monti, presentata dalla Fornero, che limitava l’acausalità al primo contratto di lavoro di massimo 12 mesi.
Inoltre l’impresa non potrà avere un numero di contratti a termine che superino il 20% dell’intero gruppo di lavoratori, a meno che non faccia un’operazione di contrattazione collettiva (in parole semplici che discuta di un contratto con i sindacati). Infine non ci sarà più l’obbligo per le aziende di assumere nuovi apprendisti dovendo tenere una percentuale di quelli che già si hanno, che prima era fissata al 30%.
Il pacchetto lavoro stilato dal ministro Poletti lascia un po’ di stucco i sindacati, che vedono lontani i tempi in cui si discuteva di contratto unico a tempo indeterminato. Di fatti lo Jobs Act renziano è più orientato per soddisfare le imprese che i lavoratori, e come sostiene la Camusso, tende a generare precarietà. Ma forse dobbiamo rassegnarci: il leader del PD ha un solo punto di riferimento fisso in mente, e si chiama Labour Party. Questa è la sua linea di pensiero per rilanciare l’economia, la sua idea di sinistra, che forse di sinistra ha ben poco.

Lo sforamento del deficit


Finalmente la mano di Padoan si fa sentire, il “neo-keynesiano”, ed un barlume di sinistra comincia ad intravedersi alla fine del tunnel. Alla base di tutto il progetto di crescita nella mente del governo, c’è la volontà di indebitarsi per rilanciare l’economia. Tutto perfetto, tutto grandioso, se non fosse che c’è un problema a monte: l’Europa non ce lo permette, e limita il tasso del deficit al 3%, che non si può sforare. Quest’anno l’Italia ha un deficit/PIL del 2,6, ed è proprio quello spazio economico dello 0,4% che il governo vuole sfruttare per ricavare denaro per rilanciare l’economia italiana. Anche di questo si parlerà nel confronto Merkel-Renzi di lunedì, e già voci critiche si levano da Berlino. Critiche che arrivano anche dalle colonne del Financial Times, che avrebbe visto di buon occhio più un aiuto alle aziende che ai lavoratori. Ma forse il Financial Times non sa cosa sono le imprese italiane, o perlomeno, la maggior parte delle imprese italiane.
Ce la faremo a dettare legge all’Europa? Li convinceremo?

#renzistaisereno, che ce la farai.



Federico Sconocchia Pisoni - @fedescony







martedì 11 marzo 2014

L'insostenibile leggerezza dell'accordo sull'Italicum. Il PD sfida il PD.

E’ sempre più sottile il filo che collega Forza Italia ed il Partito Democratico sulla legge elettorale. Di fatti oggi sulla votazione per le preferenze (emendamento La Russa) sui 360 potenziali “no”, ce ne sono stati soltanto 299, dunque 61 in meno fra persone assenti e “franchi tiratori”.
Dunque la situazione diventa sempre più rischiosa, se Forza Italia e PD fino a qualche settimana fa sembravano certi del buon esito della legge elettorale, ora sono un po’ più preoccupati. Più preoccupato fra i due partiti è il PD, che si è sempre vantato di essere un partito con tanta, forse troppa, democrazia interna, ma che in questi giorni sembra stare perdendo questa buona tradizione. Un PD che spesso nella sua storia ha visto al proprio interno franchi tiratori (basti ricordare le ultime votazioni per il presidente della Repubblica, il famoso “caso Prodi”), e continua a vederne, come in un incubo senza fine.
In questi giorni infatti il PD è più fragile che mai dalla caduta del governo Prodi nel 2008. Sempre riguardo la legge elettorale, in particolare sulla parità di genere, ci sono stati altri contrasti all’interno del partito, tant'è che Renzi ha chiesto di fare un uso minore del voto segreto. Si vocifera che ci sia stato un significativo faccia a faccia fra Rosy Bindi e Matteo Renzi, con una Bindi perlomeno stizzita dal comportamento del proprio segretario. Cresce la paura nell’ex sindaco di vedere sfumare l’accordo sulla legge elettorale, tanto demonizzata dal parlamento, ma che segnerebbe il primo passo del governo Renzi, il primo passo importante.
Premier che ha chiarito subito “Chi non vota la legge elettorale, lo vada a spiegare al paese”, come se ciò costituisse davvero una minaccia per i parlamentari.
Il segretario dei democratici si è però detto favorevole all’alternanza di genere nelle liste del PD, scrivendo su Facebook che sempre nella sua carriera ha dimostrato di voler mantenere la parità di genere (non ultima la squadra di governo, composta da otto ministri uomini ed otto donne).
Anche riguardo le soglie di sbarramento sono venuti a mancare 101 voti potenziali. Centouno, come i già citati franchi tiratori di Romano Prodi. Coincidenze che tornano. E per soli trentacinque voti non è stato promosso l’emendamento sulle preferenze, mal viste da Silvio Berlusconi. Come già accaduto nella storia della sinistra italiana, bisogna più guardarsi dagli amici che dai nemici.
Riguardo questa considerazione non può non venire in mente Pippo Civati, secondo fra gli sconfitti nella corsa elettorale alla segreteria del partito. Civati teme che con l’accordo con Silvio Berlusconi il PD possa scomparire. Di fatti il PD sta votando contro il suo stesso programma, aggiunge, ed è esterrefatto dalla situazione che si è creata intorno al conflitto d’interesse. E’ di poco fa la notizia per cui la Moretti ha dichiarato “Ci hanno fatto votare contro il conflitto di interessi”. Inutile ricordare quante battaglie il PD, o quel che c’era prima, ha fatto per il conflitto di interessi. Anche Di Battista sembra scongiurare il PD, con parole che sembrano meno cruente del solito ma più supplichevoli, di uccidere una volta per tutte politicamente Silvio Berlusconi, preghiera che non sembra essere ascoltata dai democratici fedeli al neo-premier.


Insomma, PD o non PD? Questo è il solito dilemma. 

Federico Sconocchia Pisoni - @fedescony

lunedì 10 marzo 2014

Lotta di genere - La parità di genere nell'Italicum

Non bastavano le varie polemiche sull’emendamento D’Attorre che prevedeva di formulare la legge elettorale soltanto per la camera e non per il senato, oppure la disputa sulle preferenze. A creare ostacoli all’iter della legge elettorale ci si è messo anche il problema della parità di genere.
Intendiamoci, è una battaglia sacrosanta, che vede una vera e propria lotta di genere fra i parlamentari e le parlamentari di tutti gli schieramenti politici.
Angelino Alfano apre ad una soluzione, dicendosi favorevole ad una parità elettiva fra donne e uomini, ma, aggiunge, se ciò dovesse compromettere l’intera legge elettorale ed il suo percorso legislativo, farebbe un passo indietro.
Nei giorni precedenti alcune parlamentari hanno scritto una lettera comune per sensibilizzare l’intero parlamento sulla vicenda, e sull’importanza che ha un’effettiva parità di genere. Si legge:
Siamo convinte che non sia possibile varare una nuova legge senza prevedere regole cogenti per promuovere la presenza femminile nelle istituzioni e per dare piena attuazione all'articolo 3 e all'articolo 51 della Costituzione.”
E’ nato un movimento trasversale, che comprende le donne di tutti i partiti. Anche la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha affermato che se non sarà sciolto il nodo della parità di genere, questa legge elettorale potrebbe farci fare un passo indietro, piuttosto che lanciarci in un nuovo orizzonte politico.
Giovanni Toti anche apre al confronto sulla questione, smentendo un atteggiamento assunto dai parlamentari Forza Italia dei giorni precedenti. Di fatti continuano ad essere forti i pressing a Berlusconi, molti parlamentari chiedono al cavaliere di mantenere una posizione di rifiuto; tuttavia ciò potrebbe ritorcersi contro Forza Italia dando forza agli altri schieramenti politici, compreso il PD di Renzi.
Anche il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha detto la sua, non prettamente sulla legge elettorale, ma più in generale sul sessismo in politica che egli reputa un “virus da estirpare”.
I partiti che hanno invece preso in maniera chiara le distanze dal dibattito sono stati la Lega Nord e il Movimento Cinque Stelle: il primo perché non avendo deputate donne non ha evidentemente alcun interesse in merito alla questione, il secondo perché semplicemente non si trova d’accordo con la proposta dell’emendamento.
Personalmente non sono d’accordo con la proposta avanzata in parlamento. Il nocciolo del problema è che arrivati nel 2014 nessuno dovrebbe mettere in discussione la parità di genere; purtroppo invece è spesso sotto gli occhi di tutti quanto sia diseguale il rapporto uomo-donna. E’ diventato dunque necessario e doveroso inserire la parità di genere nella legge elettorale. Rimane, tuttavia, inaccettabile che ancora si debba mettere per iscritto una cosa del genere. Inoltre, paradossalmente, questa legge potrebbe rivolgersi contro la tanta amata e richiesta democrazia (non che ora con la nuova legge si faccia un passo avanti in questo senso),  perché un politico non dovrebbe entrare in parlamento soltanto in quanto avente l’organo femminile, ma perché portatore di proprie idee e valori.

Quanto tempo passerà prima che si arrivi al futuro?


Federico Sconocchia Pisoni - @fedescony

sabato 8 marzo 2014

Che cosa ha fatto il Governo Letta

Come tutti noi sappiamo, prima di Matteo Renzi, ma forse in realtà pochi se lo ricordano, c’è stato un governo presieduto da Enrico Letta, e nato per volontà presidenziale (ma soprattutto per necessità economiche) con a sostegno un’ampia maggioranza, che comprendeva PDL, Scelta Civica e PD. Tale governo, forse pochi se lo ricordano, ha superato anche le traversie causate dagli umori di Berlusconi, che vedendo avvicinarsi la galera, più volte ha minacciato di togliere la fiducia al nipote di un proprio esponente, forse il più noto in famiglia, Gianni Letta. Alla fine Berlusconi è riuscito a sfiduciare un governo presieduto da un uomo di sinistra (se così si può definire), pur dovendo subire la scissione del proprio partito, che ha visto la nascita, ovvero il ritorno, di Forza Italia (e la conseguente nascita di un nuovo partito a guida Alfano, il Nuovo Centro Destra).
Ma il governo Letta, concretamente, che cosa ha fatto? Belpietro qualche tempo fa ha detto che Letta è “uno che accarezza i problemi, senza risolverli”, mentre Scalfaro, fondatore della testata “La Repubblica”, ha affermato che i risultati dell’azione di governo di Letta si stavano vedendo proprio in queste settimane (ad esempio il +0,1% di crescita PIL), e per questo motivo Renzi ha voluto premere l’acceleratore, per evitare che il suo “rivale” avesse successo.
Passiamo in rassegna le cose cha fatto il governo Letta. La prima cosa che viene in mente è l’abolizione della prima rata dell’IMU (con conseguenti nuove tasse minacciate e poi tolte, rinominate poi stravolte), che costituiva una sorta di “patto di governo” con la componente di centro-destra (forse più che di patto di governo si dovrebbe parlare di minaccia di governo). La storia dell’IMU è una storia travagliata, sofferta, più volte messa al centro dell’attenzione, soprattutto da chi non capiva come e soprattutto cosa pagare, con mille nomi e la stessa faccia (TARI, TASI, TARES, TRISE, TUC e IUC). Alla fine la situazione si è più o meno risolta, aumentando l’IVA di un punto percentuale, con buona pace per noi, e con il pagamento della cosiddetta “mini-IMU” ovvero l’imposta residuale che solo i proprietari delle prime case dovevano pagare se risiedevano in uno dei municipi italiani che avevano previsto un’aliquota più alta di quella fissata dallo Stato.
Il governo Letta passerà alla storia (locuzione forse impropria ma decisamente d’impatto) anche per il “decreto del fare”, approvato ad Agosto, che tra le varie cose, prevedeva: fondi per le infrastrutture pari a tre miliardi di euro; finanziamenti a tasso agevolato per le imprese che comprano nuovi macchinari;  taglio delle bollette energetiche; impignorabilità della casa e rateizzazione agevolata dei debiti; risarcimento danni causati dalla lentezza burocratica ai cittadini; revisione della giustizia civiletremila assunzioni nel campo universitario e più in generale scolastico; wi-fi gratuito.
Inoltre durante il governo Letta furono sbloccati i debiti della pubblica amministrazione, ovvero 40 miliardi da versare fra il 2013 e il 2014. Assolutamente una nota di merito, se non fosse che tale legge era già stata formulata ed indirizzata dal precedente governo Monti.
Infine, come non ricordare gli scandali che hanno colpito la diciassettesima legislatura, dalle dimissioni del ministro Josefa Idem ministro per le pari opportunità, lo sport e le politiche giovanili, per una presunta evasione dell’IMU (pare dormisse in palestra), allo scandalo Shalabayeva, per cui fu chiesta la sfiducia al ministro dell’Interno Alfano (che puntualmente è stato confermato dall’esecutivo Renzi), passando per lo scandalo De Girolamo, infine come non ricordare il dibattito sugli F35
Tuttavia, oggi che è il giorno della feste delle donne, occorre dire che sotto il Governo Letta sono state accentuate le pene a chi fosse accusato di reato di femminicidio; inoltre fu istituito l’Unità Grande Pompei, per la tutela del sito archeologico.
Il dubbio, in via definitiva, rimane: Renzi opportunista o Renzi innovatore? Letta è stato davvero uno che “accarezzava i problemi” o ha cercato di fare qualcosa di serio?

Ai posteri l’ardua sentenza.

Federico Sconocchia Pisoni - @fedescony



giovedì 6 marzo 2014

Aspettando Mercoledì

Matteo Renzi mercoledì prossimo (come invece ha fatto in questa settimana) non continuerà a fare il giro delle scuole, a causa di una dovuta conferenza stampa dopo la svalutazione dell’Italia da parte di Olli Rehn
Il piano per salvare l’italia dell’ex sindaco di Firenze prevedere tre punti fondamentali: lo Jobs Act (nome dall’antico sapore anglosassone), il piano casa e il piano scuola, con l’obiettivo di stanziare 2 miliardi di euro per l’edilizia scolastica. Fra i tre, quello più atteso e più importante è lo Jobs Act.

Jobs Act


Lo Jobs Act è il piano per far ripartire il mercato lavorativo nel nostro paese. Esso consiste fondamentalmente di tre punti.
Il primo è il sussidio universale di massimo due anni. In sostanza è una sorta di sussidio di disoccupazione mascherato, ma più elastico. In questo modo Renzi ha l’intenzione di togliere la cassa integrazione, che mai come in questi tempi è usata a vantaggio degli imprenditori ed a discapito dei lavoratori.
Secondo i dati raccolti da Padoan, neo ministro dell’Economia e delle Finanze, e da Poletti, neo ministro del Lavoro, la copertura finanziaria corrisponderebbe a 9, 5 miliardi di euro. Una spesa non indifferente. Il governo infatti non ha ancora chiaramente detto da dove prenderà materialmente quei soldi.
Il secondo punto riguarda la cosiddetta “garanzia giovani” ovvero un piano contro la disoccupazione giovanile soprattutto riguardante gli under 25. In questo caso, però, i fondi verrebbero stanziati dall’Unione Europea, e corrispondono a 1,5 miliardi di euro
In che modo verrà spesa questa somma?
Nella creazione di posti di lavoro, ma soprattutto nella formazione lavorativa dei giovani. Tutto ciò in realtà era progettato già durante il governo Letta, dall'allora ministro Giovannini.
Riguardo al terzo punto, Renzi è intenzionato a creare contratti di lavoro a tempo indeterminato a tutele progressive. Ciò significa che più si va avanti con l’età lavorativa, e più si hanno tutele. Questo, ovviamente, potrebbe andare a discapito dei giovani, che avrebbero meno tutele (non che ora ne abbiano molte di più).
Tuttavia rimane l’importanza cruciale di questo piano, che deve essere attuato il più presto. Il 41,1% di disoccupazione fra i giovani registrato qualche mese fa è allarmante, come è allarmante la svalutazione da parte dell’Europa, che ci ha sfiduciato assieme alla Croazia e alla Slovenia, non proprio due paesi modello.
Il caso Italia rimane al centro dell’attenzione, perché qualora dovesse fallire, ma già in questo momento, potrebbe creare dei seri problemi a tutta l’eurozona. D'altronde il nostro paese, checché se ne dica, rimane di importanza cruciale all'interno dell’Europa, e abbiamo un peso specifico maggiore di paesi come Grecia o Portogallo (anch'essi, come sappiamo, colpiti gravemente dalla crisi). Dunque un piano di risanamento dei conti pubblici attuato dall’Europa, con la forza con cui è stato attuato in Grecia, sarebbe il punto di arrivo di un processo che vede all'alba il fallimento di un sogno nato più di cinquant’anni fa, chiamato Europa.

Continueremo a sognare?

Federico Sconocchia Pisoni - @fedescony


mercoledì 5 marzo 2014

Con Renzi la cultura va di moda

Quanto tempo è passato dalla storica frase di Tremonti: “Con la cultura non si mangia”?
E quanto tempo è passato dall’ultima volta che un governo ha messo al centro della propria politica la cultura?
Renzi, da sindaco quale è, ha indirizzato le prime azioni di governo verso la rivalutazione della scuola. Ma perché Renzi ha così a cuore la scuola italiana? Soltanto perché ha una moglie che fa l’insegnante? No, non credo, vuol dire poco, anche Profumo (per chi se lo fosse scordato ministro dell’Istruzione del governo Monti) aveva la moglie professoressa liceale,  ma non ha fatto mai nulla per cambiare la situazione.
Renzi, figlio della sua generazione, generazione che ha vissuto l’accrescersi del disfacimento culturale (ad opera, mi è d’obbligo dirlo, di Silvio Berlusconi e delle sue televisioni commerciali), è cresciuto in una società in cui la parte più anziana, legata ancora alla divisione politica della guerra fredda, teneva la cultura come risorsa preziosa, come cibo pregiato, da non far assaggiare ai “profani”, e dall'altra parte c’era una società, quella dei giovani, che paga del benessere economico e dell’avanzare imperante delle tecnologie, sostanzialmente non si curava della cultura, contribuendo alla creazione del disfacimento socio-culturale attuale.
E non poteva iniziare meglio questa “campagna” per la sensibilizzazione alla cultura: “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino trionfa nella notte degli Oscar, aggiudicandosi il premio di “miglior film straniero”.
Immediate le congratulazioni del ministro Franceschini attraverso i tweet.


Già, Pompei. Che fine farà la nostra amata Pompei? Anche se ultimamente sembra che i nostri patrimoni culturali siano più amati all’estero che in patria. A tal proposito vorrei ricordare la vicenda legata alla “tomba del gladiatore”, che scoperta nel 2008, appena quattro anni dopo l’intero sito rischiava di dover essere interrato per la mancanza di fondi. Per far finire la vicenda a lieto fine è dovuto intervenire dagli States Russel Crowe.
Tornando a Pompei, una lenta agonia la sta portando al disfacimento. Giorno dopo giorno cascano piccoli pezzi di muro, mattoni, edifici interi. Franceschini sembra avere tutte le intenzioni migliore per rimediare subito alla situazione, ed ha convocato una riunione di emergenza dopo l’ultimo crollo. Sul sito del Ministero dei Beni Culturali sono apparsi nove punti da attuare. Tra i più significativi spunta l’utilizzo di 2 milioni di euro per la ricostruzione, accelerare la nomina del nuovo soprintendente prof. Massimo Osanna e la sollecita definizione di una convenzione tra Mibact (ministero dei Beni Culturali) e Finmeccanica per fornire servizi e tecnologie sperimentali di rilevamento satellitare volti a prevenire il rischio idrogeologico.
Renzi sembra aver preso molto seriamente a cuore la situazione delle scuole, tanto da spingerlo a promettere fondi pari a 2 miliardi di euro, e a viaggiare per le scuole Italiane per testare la situazione (un atteggiamento molto americano).
Insomma, con Matteo Renzi la cultura va di moda. E speriamo che torni davvero a fare tendenza.


Federico Sconocchia Pisoni - @fedescony

martedì 4 marzo 2014

Il primo scoglio del governo Renzi: l'Italicum

La legge elettorale, il cosiddetto “Italicum” oggi inizia il suo iter processuale, partendo dalla camera. L’Italicum era nato dall’accordo fra Matteo Renzi (allora ancora soltanto segretario del PD) e Silvio Berlusconi (allora già condannato).
L’intesa sembrava d’acciaio, e nulla avrebbe potuto cambiare le sorti della legge elettorale.
Ma nella discussione che inizia oggi e terminerà fra tre giorni, già sono sorti dei problemi. I principali problemi sono nati dalla forza di maggioranza, sotto forma di emendamenti.
L’emendamento Lauricella propone di far entrare in vigore la riforma elettorale insieme alla riforma del senato. Naturalmente, tutto ciò non può giovare a Forza Italia, che vorrebbe andare il più presto possibile alle elezioni, senza aspettare tempo prezioso.
Invece una soluzione del genere farebbe molto comodo alla compagine del governo, che così potrebbe lavorare con più serenità facendo tranquillamente (ma allo stesso tempo in maniera veloce) quelle riforme strutturali utili per il paese.
Tutto ciò non può fare politicamente bene all’opposizione di centro-destra, che vede di buon’occhio la persona Renzi, ma non vuole andare incontro ad una batosta elettorale. E ovviamente più si allontana tale data e più le possibilità crescono.
Inutile ribadire quanto sia forte ora Matteo Renzi (con quasi il 60% di consenso popolare), che qualora riuscisse a fare ciò che ha intenzione di fare, vedrebbe accrescere tale percentuale progressivamente fino alle elezioni.
L’altro emendamento che sta creando tensione fra la maggioranza è l’emendamento D’Attorre. Il bersaniano propone infatti che la legge elettorale sia valida soltanto per un ramo del parlamento, quello della camera. Di fatti nel caso in cui l’emendamento D’Attorre venisse inserito nella legge elettorale, l’entrata a Palazzo Madama sarebbe regolata dall’ex legge elettorale, o per meglio dire da ciò che rimane dopo la decisione della Corte Costituzionale. Ovviamente al PD un sistema puramente proporzionale non sta bene, e dunque è implicita la riforma del bicameralismo.

La risposta di Forza Italia non si fa attendere. Brunetta afferma che una proposta del genere sarebbe incostituzionale, e comunque non pertinente ad un sistema che, ad ora, è di bicameralismo perfetto.
Si potrebbe essere d’accordo con Brunetta, non possiamo commettere lo stesso errore del Porcellum (anche se ho i miei dubbi circa l’”incostituzionalità”) ma ci sarebbe da chiedersi il perché Forza Italia non voglia una soluzione di questo tipo.
Di fatti nel pomeriggio arriva la smentita di Berlusconi, che si rende favorevole all'emendamento D’Attorre. In questo modo il cavaliere riesce di nuovo a rendersi garante delle riforme, e si porta il coltello dalla parte del manico. Avvicinandosi all'ex premier potremmo leggere i suoi pensieri: “Se Renzi non riesce a fare quello che vuole con la sua maggioranza, ci penso io, il vero elemento innovatore da vent'anni a questa parte”

Dunque Berlusconi sembra aver trovato la chiave di volta per prendere voti alle prossime elezioni: aiutare il suo discepolo Renzi per cambiare l’Italia.

L’alunno supererà il maestro?

Federico Sconocchia Pisoni - @fedescony

lunedì 3 marzo 2014

Quando il popolo si ribella ai Russi. Ungheria 1956-Ucraina 2014

Quello che sta succedendo in Ucraina ricorda molto da vicino quello che successe in Ungheria quasi sessanta anni fa.
Nel 1956 il popolo Ungherese si rivoltò contro la Russa sovietica, manifestando contro la presenza comunista, che non potevano più tollerare.
Iniziò la cosiddetta "rivoluzione ungherese" che mirava ad espellere i russi dal territorio magiaro, ad uscire dal patto di Varsavia. Tale rivoluzione però portò soltanto vittime (quasi tremila), poiché l'Ungheria entro a far parte degli stati satelliti dell'URSS fino alla caduta del muro di Berlino. I morti erano di entrambe le fazioni: di fatti c'era chi era contrario alla presenza russa, e chi era favorevole.

In Ucraina accade una cosa simile: ricapitoliamo.


Come è iniziato tutto


Il presidente Ucraino Yanukovic, che si è sempre schierato dalla parte del Cremlino, qualche mese fa ha deciso di intavolare un accordo con Bruxelles, per entrare a far parte dell'Unione Europea. Tale volontà era dettata dalla morsa della crisi economica, ed era considerata come l'ultima carta da giocare. L'Europa però ce l'ha messa tutta per creare problemi all'Ucraina, dettando condizioni difficilmente realizzabili.
Yanukovic ha così dovuto rinunciare all'accordo con l'UE, sicuro dell'aiuto della Russia di Putin, che avrebbe elargito al suo paese 15 miliardi di dollari.
Il popolo però, almeno la componente anti-russa, non ha gradito questa mossa, riversandosi per strada.
E' stata l'ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso. Di fatti nella memoria erano e sono ancora vive le elezioni del 2004, in cui ci furono evidenti brogli elettorali, e il leader del movimento arancione avverso alla politica di Yanukovic, Iulia Timoshenko, stava ancora in prigione.
Quest'ultima ora è libera, ma la rivoluzione anti-russa non ha avuto l'approvazione di tutto il paese.


Crimea


La Crimea è stata storicamente un luogo strategico (si affaccia sul mar Nero) nell'Europa dell'est, ed ha avuto sempre una storia travagliata (anche noi italiani vi abbiamo combattuto, ai tempi di Cavour).
Nel 1954, in occasione del trecentesimo anniversario dell'alleanza Ucraina-Russia, Cruscev decise di "regalarla" all'Ucraina. Dunque è evidente che la popolazione, come attestano stime ufficiali, sia composta dal 60% di Russi.
Una parte di questa percentuale è legata molto al Cremlino, e oggi chiede la secessione. Il 30 Marzo è previsto il referendum per decidere il futuro geopolitico della Crimea.
In queste ore in Crimea hanno addirittura eletto un proprio leader, Aksyonov (che ha addirittura fatto un discorso in cui chiedeva aiuto a Putin ed addirittura trasmesso nelle TV russe integralmente), e dunque la situazione va sempre più peggiorando. Situazione che è andata peggiorando soprattutto per l'avanzata delle truppe russe nel territorio ucraino.

In Ungheria non finì così nel 1956, anche se una divisione qualche tempo dopo ci fu in quelle zone (inutile ricordarlo: il muro di Berlino).
Le conseguenze che questa secessione può portare sono innumerevoli.
Anzitutto potrebbe lacerarsi ancora di più il rapporto Russia-Europa, visto che l'Ucraina, a meno di clamorose retromarce, entrerà a far parte dell'Unione Europea in un futuro prossimo. Inoltre l'Ucraina ha un debito enorme da pagare al gigante russo del gas, Gazprom, che ha concesso gas ad un prezzo di favore fin'ora. Infine, dietro il progetto rivoluzionario ucraino, c'è la longa manus di Barack Obama, degli U.S.A.

Che si torni ad una nuova guerra fredda?

Federico Sconocchia Pisoni

sabato 1 marzo 2014

Quando il sogno si trasforma in incubo. Ascesa e declino del Movimento Cinque Stelle.

Lunedì 25 Febbraio 2013: il Movimento Cinque Stelle contro ogni aspettativa, prende 8 797 902 voti (che corrisposero al 25,9 %) alle elezioni, attestandosi come terzo partito (pardon, movimento), italiano, sbaragliando la concorrenza di vecchie glorie (Di Pietro, Fini -che non sono neanche entrati in parlamento-e Casini) e superando nettamente nuovi presunti protagonisti della scena politica italiana (Oscar Giannino, Antonio Ingroia).
Quasi nove milioni di Italiani si affidano nelle mani di Beppe Grillo. Immediatamente si inizia al grido di "tutti a casa", negando qualsiasi accordo con qualsiasi partito, obbligando Bersani a dimettersi dall'incarico di formare un nuovo governo. Il governo alla fine nascerà, e sarà quello di Letta, che sopravviverà anche alla scissione del PdL.
In questi mesi molte cose avrebbe potuto fare il Movimento Cinque Stelle, e molte ne ha fatte. In primis, mi preme ricordarlo, i proprio parlamentari si sono diminuiti lo stipendio -e di parecchio- a favore delle piccole imprese (creando un conto apposito per le PMI). Inoltre c'è da dire che hanno rinunciato anche ai rimborsi elettorali (onore a loro solo per la coerenza, a mio parere i rimborsi elettorali sono la linfa di una democrazia, se concessi nella giusta maniera)
Ma forse le cose più importanti non le ha fatte, né le potrà fare (o meglio, vorrà fare). Durante questi mesi si sono arroccati nelle loro posizioni, evitando di fare accordi anche su riforme che rientravano nei loro interessi, a partire dalla legge elettorale.
La cosa che più ha colpito l'opinione pubblica, e potrebbe essere la rovina del Movimento, è la scarsa dose di democrazia interna. Emblematica è la vicenda dei parlamentari espulsi per aver osato dire qualcosa in merito all'incontro streaming Renzi-Grillo (prese di posizione anche piuttosto leggere). Costoro sono stati giudicati come cospiratori interni al partito, serpi in seno e via dicendo.
E' stato detto di essere sempre stati contro le decisioni del Movimento. Ma se così fosse stato, perché uno dei quattro (Orellana) fu addirittura presentato alle elezioni per la presidenza del senato?


Nuovi scenari nella maggioranza



La fuoriuscita di questi quattro senatori (più altri sei che se ne sono andati per protesta) potrebbe creare un nuovo gruppo al senato, che eventualmente appoggerebbe il governo presieduto da Matteo Renzi. In questo gruppo misto potrebbero entrarci anche i civatiani poco convinti dall'ex sindaco di Firenze, SEL e gli altri espulsi da Grillo nei mesi precedenti. Ma chi è che ci perde in tutto ciò? In primis M5S, ovviamente, ma il vero perdente potrebbe risultare Angelino Alfano e il suo Nuovo Centro Destra. Nell'eventualità che si possa creare un nuovo gruppo misto che entri nella maggioranza, il peso specifico di NCD potrebbe diminuire, e dunque si troverebbe costretto o ad accettare qualsiasi proposta di legge (compresa la temibile patrimoniale) pur di restare nella maggioranza, oppure recitare la parte del figliol prodigo e tornare all'opposizione con Silvio Berlusconi. 


Una cosa è certa: sono stati smentiti tutti coloro i quali avevano criticato l'ascesa di Renzi a palazzo Chigi a discapito di Letta, sostenendo che nulla in sostanza sarebbe cambiato.
Certo, probabilmente tutto ciò che è scoppiato adesso era già in nuce da qualche settimana, ma è evidente che il cambiamento apportato da Renzi si sia fatto sentire. Eccome. 

Cosa ci prospetterà il futuro?


Federico Sconocchia Pisoni